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Il dialetto nelle scuole? Solo legato alla cultura

Riporto un mio articolo uscito su “La Nuova Venezia” lo scorso sabato 26 settembre.


Il dialetto nelle scuole? Solo legato alla cultura

L’Italia è fatta – ebbe a dire una volta Massimo D’Azeglio in pieno Parlamento – ora bisogna fare gli Italiani!”

Ardua impresa: ci provò, inutilmente A. Gabelli nel 1873 con le sue “Direttive per una scuola elementare obbligatoria e gratuita”. Il progetto andò a monte, non tanto per la contrarietà di Pio IX Mastai Ferretti che mal vedeva la diffusione della cultura fra il popolo, quanto per le condizioni di una Italietta agricola ed analfabeta al 92%.

Il primo momento di obbligata aggregazione babelico-linguistica avvenne durante la prima guerra mondiale quando soldati di regioni diverse si ritrovarono a dover necessariamente condividere uno stesso codice verbale che desse loro la possibilità di comprendersi reciprocamente: essi si videro costretti ad usare, forzosamente, una lingua comune a tutti ma fino a quel momento poco usata: per l’appunto quella italiana.

Ma fu solo negli anni cinquanta, in seguito all’abbandono delle campagne, dovuto al processo di inurbanizzazione operaia, con il contributo che diede alla Televisione il maestro Manzi  e della Scuola Media unificata, che la lingua italiana incominciò ad essere maggiormente usata e diffusa presso le classi medie (da questo punto di vista l’unità d’Italia non l’ha fatta Garibaldi ma Mike Bongiorno!): il dialetto diventa così automaticamente l’idioma di chi non può studiare e quindi di chi non avrebbe potuto elevare il proprio status e viene sentito come simbolo di inferiorità linguistica e sociale; ecco che si crea allora una netta separazione tra la lingua che viene insegnata nelle scuole e quella che si parla in famiglia e la sovrapposizione tra le due dà adito a bislacchi miscugli idiomatici creando una frattura ed una distanza ancora più grande tra i due mondi.

Oggi il miglioramento delle condizioni sociali e quindi la possibilità per molti di frequentare l’università ha portato ad un allargamento dei confini culturali e linguistici e alla costruzione di una nuova rete comunicativa globale.

Per questo motivo si avverte fortemente la necessità di fare in qualche modo una pausa e di ritrovare nelle proprie origini uno spessore culturale e storico anche e soprattutto attraverso il proprio idioma locale per evitare che si perda tra le maglie dell’ingranaggio comunicazionale massificante.

Si spiegano cosi i tentativi italiani e stranieri di rimettere in discussione l’importanza del recupero dei dialetti in quanto idiomi ancora parlati, vivi e comunicativi e proprio per questo densi di quell’emotività che molto spesso non è possibile rendere nella lingua nazionale corrispondente. Faccio un esempio nel mio dialetto, il veneziano: filar caìgo (o calìgo) ha il significato italiano di arrovellarsi o di rimuginarci sopra. Ma la frase idiomatica dialettale regala un’immagine che è propria della terra alla quale noi apparteniamo e il significato è appunto visivo: filare, come su un arcolaio, la nebbia che da noi è così densa da poterne ricavare l’immagine della “lana” pronta per essere filata.

Partendo da questa esigenza si è dibattuto, in questi ultimi tempi, il problema se insegnare o meno il dialetto nelle scuole.

Mi spiego: a livello di insegnamento scolastico la lingua viene frazionata in particelle che ricoprono significati ben precisi che, nell’uso, ne rivelano l’utilità.
Non è puro esercizio ricercare con discernimento l’aggettivo che meglio si adatta ad un determinato sostantivo, né riconoscere che in alcuni casi, è necessario l’uso del congiuntivo.

No , non lo è.

Si tratta invece di individuare accuratamente la costruzione, l’ossatura del linguaggio che ci hanno trasmesso e osservare i criteri che lo hanno strutturato.

Il dialetto non si sottrae a questa stessa prassi anche se  è un idioma che sopravvive nella sua trasformazione orale, evolvendo e plasmandosi assieme alle esigenze linguistiche delle generazioni che lo usano.
Creare un sistema organizzato in un simile ectoplasma linguistico significherebbe fermare la sua prosecuzione, il suo sviluppo naturale di mutante, ma non farlo significherebbe altresì perdere i vocaboli in disuso che oggi si sono foneticamente avvicinati all’italiano e che quindi hanno perso quel valore semantico collegato in qualche modo ad una realtà diversa da quella attuale e lasciarsi così sfuggire la struttura linguistica che lo compone.

Dunque, è importante insegnare il dialetto nelle scuole?
Il valore di questo insegnamento si intuisce solo se il dialetto non sarà trasmesso quale mero recupero tradizionale o quale simbolo di sentita e sbandierata necessità di appartenenza, ma in quanto mezzo essenziale per formare una propria consapevolezza linguistica, per un’analisi approfondita per cui prendere coscienza del proprio idioma e delle proprie origini attraverso una visione più ampia che coinvolga gradualmente sia la riproposta delle tradizioni popolari (canti, fiabe, giochi), sia lo studio filologico del dialetto e l’approfondimento della letteratura, della storia e della cultura ad esso correlata.

Samantha Lenarda

La Nuova Venezia 260909

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5 thoughts on “Il dialetto nelle scuole? Solo legato alla cultura
  • nicola scrive:

    Complimenti per il bell’articolo e il bellissimo argomento.
    Mi ha fatto tornare a mente la vergogna di quando a scuola il maestro mi derideva e additava perché scrivevo “gnanca” al posto di “neanche” oppure “mi sono sentato giù” invece dell’italico “mi sono seduto” !!!
    Ultimamente mi ha fatto ridere un bambino padovano di circa 5 anni che al termine di un pranzo ha detto, soddisfatto e in corretto italiano: “Mi sento proprio pieno passùo” (pasciuto!)
    A proposito di grammatica dialettale: anche in veneziano ci sono i numerali maschili e femminili (che si sono perduti nell’italiano?) come i veronesi “dU òmeni e dO dòne, trI òmeni e trE dòne”
    E se l’unità linguistica l’ha fatta la Televisione… perché non obbligare semplicemente i notiziari locali a parlare… dialetto?
    Abbiamo 100 e passa canali televisivi tutti uguali, sai che meraviglia farli distinguere in questo modo, e la sera ascoltare tutti insieme le news in trevigiano dei colli, o veneziano occidentale, padovano della bassa, vicentino orientale?

  • Lorenzo scrive:

    “Dialetto” nel senso di lingua vernacolare. No? Oppure lo si chiama dialetto per via del fatto che se ne fa un uso prevalentemente orale? Non essendo il veneto un dialetto dell’italiano, non lo si dovrebbe chiamare “lingua veneta”? Altrimenti i veneti continueranno a credere che parlare in dialetto significa parlare una versione deteriore e sgrammaticata della lingua italiana.(Giuro, non sono leghista).

  • Silvia scrive:

    Bell’articolo! Sono pienamente d’accordo.

  • Valerio scrive:

    Mi dispiace, il Dialetto è un’espressione che dipinge una determinata zona, è musica, capisco che insegnare a scuola sarà difficile comunque noi (Accademia di poesia “Aque Slosse” di Bassano del Grappa) andiamo in diversi Istituti a portare la nostra cultura.

  • Samantha scrive:

    Gent.le Sig.Valerio,

    ho riletto con un po’ di stupore il mio articolo cercando di capire come mai scrive all’inizio del suo commento “Mi dispiace”.

    Forse ha frainteso, infatti l’argomento del mio articolo è proprio legato all’insegnamento del dialetto inteso come cultura comune e non solo legato alla lingua.
    Sono sicura che Lei e la sua associazione nelle scuole fate proprio questo.

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